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EDIPO E LE PERE

L’affrancamento dalla tagliola edipica

di Lorenzo Carrara

1. IL SESSO AI TEMPI E NEI LUOGHI DI FREUD

Come sappiamo, Freud nacque da una famiglia di religione ebraica che viveva in un paesino della Moravia. Quando Sigmund aveva tre anni, la famiglia si trasferì a Vienna per tentare di migliorare le proprie condizioni economiche e sociali. Questo tentativo ebbe un modesto successo, ma da allora Sigmund visse ininterrottamente a Vienna fino al 1938, anno in cui dovette trasferirsi a Londra per sfuggire alla dittatura nazionalsocialista.

Il contesto culturale nel quale il giovane Freud crebbe e maturò fu dunque quello della Vienna della fine del XIX secolo, mentre quello più proprio della famiglia era definito dalla appartenenza alla cultura ebraica, una appartenenza che Freud non rinnegò mai ma anzi sembrò vivere per tutta la vita come un significativo stato di fatto, malgrado la personale posizione critica nei confronti di tutte le religioni.

Per quanto la Vienna di quegli anni venisse da molti moralisti dipinta come una città “meridionale” e “libertina”, era pur sempre la capitale di un impero strettamente imparentato con le maggiori dinastie del Nord Europa, in un periodo nel quale una moralità di impronta vittoriana, austera e rigida come in pochi altri momenti precedenti della Storia, era considerata la “buona” norma della convivenza civile.

Il giovane Freud crebbe dunque in un contesto nel quale una condotta morale retta, sobria e irreprensibile era ciò che tutti si aspettavano da tutti. E, naturalmente, questi aggettivi dovevano fare testo anche e specialmente nell’ambito della vita sessuale, che poteva essere “ufficialmente” concepita solo nell’ambito di un matrimonio vissuto come il coronamento di una appartenenza alla società, una società le cui regole e ragioni venivano collettivamente vissute come prioritarie rispetto ai desideri e alle necessità dell’individuo. I tempi dell’individualismo sfrenato che hanno caratterizzato la seconda metà del XX secolo - e l’inizio del secolo attuale - erano ancora di là da venire. A quei tempi e in quei luoghi, essere un membro degno di rispetto della società significava comportarsi in modo molto “adulto” fin dall’adolescenza, facendo seri progetti di vita centrati sul matrimonio e sulla procreazione e contribuendo, anche con il proprio lavoro, alla salute morale ed economica della nazione di appartenenza.

Ovviamente, aspettative così rigide e pesanti non potevano che generare una tendenza alla pratica di quella che anche Freud ebbe a chiamare “doppia morale”, cioè di un binario alternativo che consentiva tacitamente – ma solo agli uomini! – la soddisfazione al di fuori del matrimonio delle esigenze sessuali frustrate. Freud descrisse in modo molto lucido e disincantato (Freud, 1921) la genesi e il destino di questa insoddisfazione matrimoniale, sia per l’uomo che per la donna, fornendoci precise indicazioni sulle norme di comportamento che ci si aspettava tutti dovessero (pubblicamente) rispettare, ma anche sugli esiti “psicotossici” di questa situazione di scollamento tra sessualità e aspettative sociali.

L’atteggiamento di Freud si trovò dunque ad oscillare tra la necessità di ribadire l’utilità sociale e la inevitabilità di una condotta sessuale austera, e la consapevolezza del significato e della portata, per la propria salute mentale, di una gratificazione almeno parziale delle richieste di una pulsione erotica sottoposta a dure limitazioni. Tra l’incudine e il martello.

Riassumendo in modo sicuramente un po’ sbrigativo, potremmo dire che ai tempi e nei luoghi di Freud:

1) Produrre e riprodursi erano gli scopi prioritari dell’individuo, che era concepito primariamente come membro della collettività e il cui operare era quindi in funzione di essa;
2) La scelta matrimoniale era basata, almeno per le classi di status medio-alto, su criteri di convenienza economica e di utilità nel posizionamento sociale;
3) La sessualità era ufficialmente concepita solo in funzione della procreazione, dunque solo all’interno del matrimonio e come suo coronamento;
4) La masturbazione era ritenuta una pratica abusiva, nociva e perversa, anche e specialmente perché distoglieva dalla finalità procreativa della sessualità;
5) Il piacere erotico era ritenuto privilegio e prerogativa della sessualità mercenaria, o tutt’al più delle prime fasi del matrimonio, al quale si doveva arrivare (sicuramente per quanto riguarda la donna) in condizione di illibatezza.

E’ dunque in questo quadro che Freud si trova ad elaborare le sue riflessioni sulla sessualità. Sia politicamente che sessualmente, Freud si dichiara personalmente un conservatore. Quanto lo fosse veramente e quanto fosse costretto ad esserlo dal proprio contesto e dal proprio ruolo, non è l’argomento di questo scritto, ma è certo che si preoccupò molto e in molte occasioni di riaffermare pubblicamente la sua adesione alle obbligazioni sociali e alle norme morali collettive così come venivano comunemente intese ai suoi tempi. Data l’intrinseca delicatezza delle tematiche da lui affrontate, era naturalmente molto preoccupato di lasciare il minor spazio possibile alle accuse di lassismo morale (o peggio) che spesso gli vennero mosse da più parti. Freud non abbandonò mai al proprio destino il suo quadro di riferimento sociale, spingendo fino alle estreme conseguenze logiche – vale a dire fino al concetto di “liberazione sessuale” che abbiamo visto esplodere negli anni ’70 del secolo scorso – la portata e il significato delle proprie scoperte.


2. ENTRA IN SCENA EDIPO

Sappiamo bene che l’elaborazione del concetto di “complesso edipico” non fu affatto la prima delle mosse di Freud nel campo dello studio dei comportamenti sessuali (e delle relative nevrosi). Al momento della descrizione della dinamica edipica erano già state raggiunte svariate acquisizioni fondamentali, che avevano preparato il terreno a questa ulteriore elaborazione e ne avevano creato le premesse concettuali. La tematica edipica venne sviluppata nell’arco di diversi anni fino ad acquisire un suo assetto ben definito, nel quale si possono riconoscere e descrivere alcuni passaggi fondamentali dell’evoluzione infantile, che è l’evoluzione della capacità di amare del bambino e una delle sue prime occasioni di scontro con la realtà.

La dinamica edipica può essere descritta sinteticamente in questo modo: l’attaccamento del bambino nei confronti delle sue figure di accudimento primarie non ha, per Freud, solo il carattere di una calda e positiva affettuosità, ma anche quello del desiderio di unicità nel possesso completo dell’oggetto d’amore, che solitamente è il padre nel caso della bambina e la madre in quello del bambino. Questo completo possesso implicherebbe quasi necessariamente l’esclusione – anzi, l’eliminazione – dell’altro genitore, visto come un temibile concorrente. Nelle sue fantasie, il bambino che si affaccia all’edipo concepisce il possesso della persona amata come un gesto pienamente erotico, anche se la quantità e qualità delle informazioni a disposizione del bambino a proposito dell’accoppiamento può essere ancora molto sommaria. Molti bambini hanno, più o meno tra i tre e i cinque anni, la convizione che il parto avvenga per via anale, e oltre a ciò non hanno un’idea precisa (o non hanno alcuna idea) della meccanica dell’accoppiamento. Questo però non impedisce loro di provare, e di esprimere, un desiderio esplicitamente carnale, fatto di un contatto fisico quanto più possibile intimo. Come sappiamo, le zone erogene sono in quella fascia di età praticamente tutte attive.

Questo è dunque, a grandi linee, il quadro della situazione dal lato del bambino, che è il protagonista sul quale Freud ha concentrato la massima attenzione. Resta da definire ciò che nel frattempo accade al genitore (anzi, ai genitori), ma qui Freud sembra dare per scontato che la risposta alle richieste del bambino non possa che seguire un percorso obbligato, più o meno arricchito di dettagli. In estrema sintesi: il genitore concupito si tira indietro, aiutato anche dal coniuge (DOVEVA essere “coniuge”, ai tempi di Freud) nel proporre/imporre al bambino un’unica possibile soluzione, chiamata repressione. Nel copione proposto da Freud, questa repressione si basa spesso – diremmo che si “impernia” - su una minaccia, la stessa minaccia messa in campo nel tentativo di porre un freno alle attività masturbatorie del bambino: la minaccia della castrazione. Questa minaccia può essere avanzata in modo esplicito oppure implicito, dalla madre e/o dal padre. Il risultato dovrebbe essere, in ogni caso, la dissuasione.

E’ a questo punto che si attiva il dramma: il bambino sente di non avere strumenti che gli consentano di cambiare il copione a suo favore; il dilemma interiore si risolve negando la propria pulsione erotica nei confronti del genitore desiderato, e contemporaneamente negando la propria pulsione erotica tout court. Inizia così il cosiddetto “periodo di latenza”, destinato, sempre secondo Freud, a durare fino alla seconda, irrefrenabile comparsa delle pulsioni sessuali, in concomitanza con il periodo adolescenziale. A quel punto, il giovane dovrebbe essere ormai al di là delle secche del complesso di Edipo e delle sue dinamiche, e rivolgere le proprie attenzioni ad altri interlocutori. Oppure no, ed è qui che i problemi – iniziati parecchi anni prima – vengono al pettine sotto forma di nevrosi.

Se la nevrosi è un “sospeso” non saldato, la nevrosi edipica è un sospeso che non consente la libera scelta dell’interlocutore affettivo ed erotico, perché questo interlocutore c’è già (è il genitore tanto desiderato), e ad esso è indelebilmente associata la propria richiesta di soddisfazione. Naturalmente, la situazione è complicata, anzi, pregiudicata, dal fatto che questo radicamento della scelta oggettuale è quasi invariabilmente inconsapevole (inconscio). La persona in questione è paralizzata da una scelta operata tanti anni prima e mai superata, paralizzata dal rifiuto ricevuto ma ancor più paralizzata dal non averne consapevolezza. La soluzione proposta da Freud consiste nell’acquisire questa consapevolezza, attraverso un percorso da lui battezzato Psicoanalisi.

Detta ancora una volta in modo sbrigativo: se ci rendiamo conto pienamente di essere vincolati ad una scelta intrinsecamente perdente, non sostenibile, operata in un’età immatura, dovremmo poter guadagnare la libertà di scegliere, la possibilità di optare per una soluzione diversa, che comporti prima di tutto l’abbandono al suo destino di questo attaccamento primario/secondario indebito e attualmente impossibile. Ci dovrebbero aiutare in questa scelta di libertà la ragione, la morale comune e le aspettative sociali. Fin qui, per sommi capi e salvo errori, l’evoluzione delle dinamiche edipiche – sia quelle negative che quelle positive - descritte da Freud.

Ma il tempo passa e i contesti socio-culturali mutano, e viene da chiedersi se in questo copione, nello schema di questa mise en scène, siano oggi immaginabili delle varianti. Quella che abbiamo descritto sinteticamente è dunque l’unica possibile (doppia) evoluzione della situazione edipica? Il ruolo del contesto e delle sue aspettative non è in alcun modo cambiato? E che dire dello spazio e del significato attualmente attribuiti alla sessualità? E’ forse immaginabile un decorso diverso, a parità di esiti, o anche una possibilità di evitare del tutto al bambino (e all’adulto) di trovarsi imprigionato nella tagliola edipica? E’ possibile evitare le sofferenze che questa condizione comporta anche nella migliore delle ipotesi? Ci piacerebbe pensarlo, ci piacerebbe provare a pensarci.

Rivediamo dunque la scena alla moviola.


3. L’EDIPO AI TEMPI DI FREUD

Per esemplificare l’apparente ineluttabilità dell’edipo ai tempi di Freud utilizzeremo un materiale ormai “classico”, vale a dire i resoconti contenuti nel Caso del Piccolo Hans. Il piccolo Hans era un bambino intelligente e vivace che viveva, come Freud, nella Vienna dei primissimi anni del XX secolo. A quei tempi*, la sua era una famiglia di persone colte, dedite ad occupazioni intellettuali; all’inizio della vicenda Hans è l’unico figlio della coppia, ma dopo qualche tempo la madre darà alla luce una sorellina. [* E’ da notare, incidentalmente, che qualche tempo dopo le vicende narrate nel Caso del Piccolo Hans i genitori dei due bambini si separarono, per rifarsi poi una vita con nuovi partner, cosa questa non impossibile ma certo non molto frequente a quei tempi e in quei luoghi (e meno che mai in Italia…)]. Di tutta la vicenda - narrata da Freud ma da lui vissuta in prima persona solo in un’unica occasione di incontro con il bambino, nel suo studio in Berggasse – utilizzeremo per il momento solo un episodio, che ne costituisce uno dei fulcri.

Dunque Hans, che ha 4 anni, gioca con alcuni bambini e ragazzi che frequenta nella località di villeggiatura di Gmunden. Tra questi c’è Mariedl, una ragazzina quattordicenne che abita al piano inferiore e che ad Hans sembra piacere in modo particolare. Dopo avere in alcune occasioni mostrato il proprio trasporto affettivo nei confronti della sua amica, un giorno Hans chiede ai genitori di far dormire Mariedl con loro, a casa loro. Al diniego del padre e della madre, Hans replica (Freud, 1908, p.22):

“Allora io vado giù a dormire con Mariedl”
La mamma di Hans risponde: “Vuoi davvero lasciare la mamma per andare a dormire giù?”
Hans: “Beh, ma domattina torno su per fare colazione e andare al gabinetto”.
Mamma: “Se proprio vuoi andare via da papà e mamma, prenditi giacca e calzoni, e addio!”

Ecco. La frittata è già fatta. Solo che chi rompe, qui, non paga, ma fa pagare all’altro. L’edipo è un dramma, ma in moltissimi casi è il dramma della incompetenza pedagogica e affettiva dei genitori. Vediamo, in questo caso, in cosa consiste questa incompetenza.

Il bambino Hans sta facendo le sue prove tecniche di amore, e nel farle mostra una scioltezza invidiabile. Non limitandosi al rapporto – pur molto intenso – con la madre, rivolge le sue attenzioni anche ad altre persone. Tra queste, la ragazzina Mariedl. Qual è dunque la sua richiesta? Approfondire lo scambio, il contatto con Mariedl. I genitori, valutate le circostanze, oppongono un diniego al pernottamento di Mariedl nel loro appartamento, e fin qui c’è solo da immaginare in loro i primi germi di una inquietudine di fronte ad un bambino forse troppo “sveglio” e precoce. Il peggio deve ancora venire. Quando di fronte al rifiuto Hans manifesta l’intenzione di aggirare l’ostacolo andando lui a dormire con Mariedl al piano inferiore, la risposta della madre non si fa attendere: “Vuoi davvero lasciare la mamma per andare a dormire giù?”. Non è ancora una minaccia, ma la mamma ha già perso il controllo della situazione – della sua situazione interiore – e già sta scivolando giù per la china dei cattivi sentimenti e delle cattive parole. Già la mamma sta suggerendo l’idea dell’abbandono, che Hans non ha minimamente contemplato. Alla risposta di Hans, che promette di tornare la mattina dopo, altre mamme avrebbero sorriso di tenerezza, ma la mamma di Hans costruisce la sua vendetta a lungo termine e gli lancia il suo toxon, la sua freccia colma di veleno:

Mamma: “Se proprio vuoi andare via da papà e mamma, prenditi giacca e calzoni, e addio!”

Questa è la risposta di una persona in preda all’angoscia abbandonica, di una persona che perdendo il controllo di sé cerca unicamente di restituire l’affronto con una ferita ancora più profonda, una ferita che potrebbe non rimarginarsi più. La minaccia parte, e colpisce Hans al cuore: “Se tu ami qualcun altro (o altra), io ti disconosco”. Il che equivale ovviamente ad una richiesta precisa: “Tu devi amare solo me”. Questo sì che è un tentativo di castrazione. “Se tu ami qualcun altro, io ti taglio (da me)”. D’altronde, la mamma di Hans è la stessa persona che, sorprendendolo a masturbarsi, gli dice (Freud, 1908 p.15): “Se fai questo faccio venire il dottor A. che ti taglia il fapipì”.

Hans è rimasto preso nella tagliola edipica. Ma chi ha ragione? Chi ha torto? Che senso ha tutto ciò? Il progetto di Hans non è solo una prova tecnica di amore, ma è anche e contemporaneamente (e non a caso) una prova tecnica di autonomia. Staccarsi, almeno momentaneamente, dalle gonne della madre per esplorare il resto del mondo, nel quale ci sono molte altre opportunità di amore, di scambio e di conoscenza. Altre madri avrebbero reagito in altro modo, ma la mamma di Hans, che ha in lui un fulcro del proprio significato esistenziale, lo prende sul serio, dannatamente sul serio, e vede, come in un incubo, il figlio che la abbandona. Per prevenire - sul momento ma anche in prospettiva futura – questa angosciante possibilità, la mamma di Hans gli getta addosso un incantesimo: “Sappi, tutte le volte che desidererai essere con un’altra, che lo potrai fare solo al prezzo di perdere me, cioè ciò che ti tiene in vita. Io condanno questo tuo desiderio, e la mia condanna è ciò che io stessa più temo: la separazione”. Parafrasata ulteriormente, la posizione della madre di Hans potrebbe essere espressa così: “Non devi non-desiderarmi, anche se non potrai mai avermi”. Se fosse un adulto, Hans potrebbe forse riconoscere la trappola ed evitarla. Ma Hans non ha strumenti sufficienti ad affrontare con successo questa prova, e si incammina verso l’unica soluzione possibile: la nevrosi.

Bene; ma in che rapporto sta tutto questo con il complesso edipico propriamente inteso? Qui, apparentemente, la mamma nega al figlio la possibilità di accostarsi ad altre donne, e tesse una rete per avvolgere il figlio maggiormente a se stessa. In cosa consiste la tagliola edipica? Consiste nel doppio messaggio (doppio legame) che la madre propone e impone implicitamente al figlio. “Io non sono e non sarò mai tua, ma tu non potrai mai essere non-mio”. La madre non acconsente al desiderio edipico del figlio, ma non acconsente neanche a renderlo libero, né ora né mai. Così facendo, lo lega a sé, lo lega ad un desiderio edipico insoddisfatto e alla impossibilità di trovare soddisfazione altrove. Questa è la condanna all’edipo, una condanna che i genitori impongono ai figli. Se l’edipo è l’incapacità di staccarsi dai genitori in età adulta, ebbene, chi ha causato questa incapacità, questa impossibilità? Hans o la mamma?

L’angoscia abbandonica della madre di Hans prende dunque la forma della possessività, e si travasa dentro ad Hans stesso. Da qui in poi, Hans vivrà con il terrore di un abbandono che lui non si era minimamente immaginato né prefisso. Hans non voleva abbandonare la mamma, voleva solo incontrare Mariedl. Il pensiero dell’abbandono, dentro di lui, non era nemmeno lontanamente concepito. Ora sì; da ora in poi il pensiero - il terrore - dell’abbandono non lo lascerà più. La mamma non lo lascerà più, perché la mamma di Hans è il pensiero dell’abbandono, il terrore della separazione. Il complesso edipico, dunque, non è un problema dei figli, ma è un problema dei genitori che ricade sui figli, una malattia (del pensiero) trasmessa in eredità.

Se il pensiero della mamma è malato, quello di Hans, almeno potenzialmente, è molto più aperto e sano. Lui ha la risposta giusta alla propria voglia di amare, e la fornisce ai propri genitori (Freud 1908, p.86):

Hans: “Io ero la mamma […]”
Papà: “E cosa facevi con i bambini?”
Hans: “Li facevo dormire con me, bambine e bambini”
Papà: “Tutti i giorni?”
Hans: “Certo”

Nella sua identificazione con la madre – l’unico modo possibile per rettificare l’errore del genitore è diventare il genitore e riscrivere la storia – il giovane esploratore dell’amore è molto più generoso della sua possessiva tiranna, e mostra ulteriormente la propria (sana) propensione per la plurimità dei rapporti affettivi. E’ da notare che “dormire con” sembra essere per moltissimi bambini la frase che meglio descrive l’idea di vicinanza, calore e intimità nel rapporto emotivo e corporeo con gli altri. Un’idea che viene correttamente individuata come centrale fra le modalità dell’amore, e questo a tutte le età: Hans vuole dormire con la mamma, ma vede che anche il padre lo vuole, e che lo fa. Dunque per Hans la quintessenza dell’amare è dormire con.

Che dire del padre di Hans? Tutt’altro che semplice spettatore, sembra non cogliere il ruolo attivo che la madre di Hans svolge nel dramma, e concentra tutta la sua attenzione sul figliolo. Naturalmente, se il rischio è quello di perdere l’amore della madre, per Hans l’esecutore della condanna sembra essere il padre, cioè colui che godrebbe del beneficio della scomparsa di Hans dalla scena. L’esecutore ha la forza per punire, ma anche il tornaconto. Quindi, paradossalmente, non è la madre ad essere individuata da Hans come il proprio nemico – il nemico del proprio pensiero di amore e di libertà – ma il padre. Ecco allora che Hans sviluppa le sue fobie per i cavalli, e in particolare per quel cavallo bianco che è il padre. Qui è in atto uno spostamento. “Non mia madre, ma mio padre è il mio nemico”.

Apparentemente, il piccolo Hans (cioè Herbert Graf) trovò una via d’uscita da queste dinamiche grazie alla sollecitudine di suo padre e alla benigna e attiva supervisione di Freud. Altre persone trascorrono tutta la vita intrappolate nella tagliola edipica.


4. RITORNO AL FUTURO: CHI HA PAURA DI EDIPO?

Torniamo al futuro, dunque ai tempi nostri, e al quesito sull’ineluttabilità dell’edipo. E’ davvero un passaggio obbligato, e lo è davvero sempre nelle forme del dramma? Esiste un modo per evitare di essere presi nella tagliola? Ed è ancora vero che l’unica soluzione (a parte una terapia psicoanalitica) consiste nella repressione brutale - con minaccia dell’uso della forbice - dei desideri del bambino?

Prima di poter rispondere a queste domande dovremmo probabilmente iniziare da un altro, ben diverso quesito: Chi ha paura di Edipo? La versione classica di questo mito è un dramma, anzi una tragedia, anzi un’ecatombe. Tutti perdono qualcosa, o anche tutto. Potremmo dire senza troppe incertezze che il mito è lì apposta per spaventarci. Come quasi tutti i miti, è un ammaestramento morale che ci insegna cosa NON fare. Ma in questo caso, cos’è esattamente che dobbiamo non fare? Riferendoci ancora al mito e prendendolo alla lettera, dovremmo concludere in prima battuta che gli antichi non ritenessero una buona idea uccidere il padre e accoppiarsi con la propria madre, due divieti (due tabù) distinti ma ben dialoganti fra loro.

Anche nella religione giudaico-cristiana abbiamo questi tabù, che sono considerati così importanti da riflettersi in modo esplicito o velato in ben sei dei leggendari Dieci Comandamenti, così come vengono riportati nella versione della tradizione cattolica e luterana:

4) Onora tuo padre e tua madre – non uccidere l’uno e non accoppiarti con l’altra
5) Non uccidere – come sopra. Incidentalmente, non uccidere neanche tua madre
6) Non commettere adulterio – l’adulterio consiste nell’accoppiarti con l’adulto che ti ha accudito. Non farlo.
7) Non rubare – non rubare la moglie a tuo padre
8) Non desiderare la moglie del tuo prossimo – il tuo prossimo più prossimo è tuo padre. Dunque non desiderare sua moglie, tua madre.
9) Non desiderare le cose del tuo prossimo – come sopra; tenendo conto che la moglie è una delle cose possedute da tuo padre

Queste dunque le indicazioni della religione, che ovviamente si incarica di vietare proprio ciò che è più desiderato. Non c’è alcun bisogno di vietare ciò che non è desiderato da nessuno… E’ interessante notare che il testo religioso afferma in maniera abbastanza esplicita che non c’è alcuna differenza sostanziale tra l’azione e il pensiero, cioè tra il fare le cose proibite e il desiderarle. Questa confusione tra ciò che si pensa e ciò che si fa è un pensiero che genera malattia (mentale) e costringe alla rimozione.

Abbiamo dunque capito cosa non dobbiamo fare, almeno secondo la religione e dunque secondo la versione ufficiale della moralità collettiva. Alla luce di queste indicazioni, la versione mitica del dramma di Edipo è davvero una tragedia, piena di peccati mortali, di passi falsi irrimediabili.


5. L’ EDIPO AI NOSTRI GIORNI

Torniamo a questo punto alla versione domestica, casereccia, quotidiana della dinamica edipica, riportando le lancette dell’orologio a prima della catastrofe. Cosa vuole dunque il bambino? Amare in tutti i modi possibili la mamma (o il papà). “Tutti i modi possibili” significa letteralmente “tutti quelli che il bambino è in grado di immaginare”, e uno dei più intensamente desiderati è il dormire con. Questo è il punto di partenza assodato dell’intera vicenda, indipendentemente dagli eventuali esiti.

Ma spostiamo per un attimo la nostra attenzione alla questione che con questa è collegata. Se non vengono effettuate pressioni indebite a monte, cioè se il bambino non viene esposto a logiche affettive malate, basate sulla esclusione, scopriremo che il (la) giovane apprendista dell’amore mostra di avere altrettanto piacere anche nel contatto con l’altro genitore (e inoltre con Mariedl, con Franzl, con Fritz, con Paul, ecc.). La polarizzazione edipica classica è l’effetto di un assunto perverso, insegnato dalla mamma e/o dal papà al bambino: “Se tu ami me allora non devi amare l’altro” oppure, il che è lo stesso, “Se tu ami l’altro allora non puoi amare me”. Nel bambino, questo messaggio riverbera come “Io (tuo figlio) amo te dunque non devo amare l’altro/a”. Nel momento in cui l’”allora” diventa “dunque”, il pensiero dell’esclusione si è definitivamente cristallizzato, trasformandosi nell’acciaio più duro, l’acciaio di una lama che taglia e separa. E uccide, materialmente o metaforicamente.

Detta in altri termini: l’altro (genitore) diventa un nemico solo se si comporta da rivale. Nessun padre che dicesse “Sia tu che io vogliamo bene alla mamma, e questo è bello, ci accomuna e ci avvicina” creerebbe nel figlio o nella figlia l’idea della rivalità. Naturalmente, anche la mamma dovrebbe contribuire a questa armonia con un pensiero analogo e speculare. Una rivalità tra padre e madre nel contendersi l’affetto del figlio è la vera natura dell’edipo. Tutto al contrario di ciò che sembrerebbe essere. E infatti è qui che il gioco si incrina, che la possibilità di amare con gusto e serenità si sfracella contro un muro. Il guaio è che poi in terapia ci viene (se ci viene) il figlio o la figlia, non i genitori. E anche questo è uno spostamento: “Il problema non è nostro, è suo”.

Immergendola nel tempo presente, una delle questioni-chiave dell’intero tema edipico è dunque questa: “Se oggi, grazie alla Psicoanalisi ma anche ai mutati costumi sociali (indotti in gran parte proprio dagli influssi del pensiero psicoanalitico) l’atteggiamento morale e affettivo dei genitori è cambiato piuttosto radicalmente rispetto a quello considerato normale ai tempi e nei luoghi di Freud, è forse possibile immaginare un copione sostanzialmente diverso per questa rappresentazione?

Oggi esistono genitori che non enfatizzano negativamente le differenze di genere ma le valorizzano. Oggi esistono madri che non disdegnano ruoli e occupazioni tradizionalmente ritenuti “maschili”, così come esistono padri capaci di svolgere compiti e funzioni tradizionalmente identificati come “femminili” e “materni”. Padri che sanno giocare e parlare con i figli, ma anche lavarli, massaggiarli, accarezzarli, fare loro da mangiare, vestirli. Esistono madri che non sono più obbligate a cercare nel figlio il “pene mancante” della loro identità corporea ed emotiva. Madri che lavorano ma anche, più in generale, che riescono a trovare per la propria vita un senso che va molto al di là della procreazione. Ruoli passivi e ruoli attivi si alternano, e si scambiano.

Questa non vuole essere la descrizione di un paradiso terrestre (o di un inferno, per qualcuno disperatamente ancorato al passato): stiamo solo affermando che oggi esistono nuove possibilità, socialmente accettate, e che esiste anche qualcuno che le coglie. Torniamo per un attimo alla sconsolata descrizione di Freud della vita matrimoniale (Freud, 1921) e confrontiamo quel quadro con quello che oggi conosciamo. Senza voler affermare che tutto è cambiato per tutti, oggi molte cose che allora sembravano impossibili sono diventate realtà quotidiane, e quello che un tempo sembrava l’unica possibilità è diventato niente più che una delle opzioni sul campo, e non certo la migliore o la più allettante.

Dunque, almeno per qualcuno dei membri della nostra società, oggi è possibile ipotizzare una dinamica di coppia che non sia costretta a nutrirsi della separazione e della rivalità. E quindi, forse, anche qualche figlio che possa sentirsi autorizzato ad amare sia il padre che la madre, senza la necessità di passare dalle forche caudine (o dalla ghigliottina) dello “Scegli lui/lei o scegli me”. Una famiglia nella quale non si senta MAI risuonare la fatidica (e velenosissima) frase: “A chi vuoi più bene, al papà o alla mamma?” Questa è la frase che genera l’edipo, perché l’edipo è un conflitto. Dove non c’è conflitto, non c’è edipo.


6. CASI NON-CLINICI

La seconda, cardinale questione che riguarda la dinamica edipica e il suo decorso - temuto o supposto - riguarda “quello che accadrebbe se lasciassimo fare al bambino (alla bambina) ciò che chiede, cioè ciò che desidera”. Spesso questa questione non viene nemmeno espressa, perché il solo pensare ad una tale eventualità richiede di gettare il cuore al di là dell’ostacolo, vale a dire al di là del tabù, una cosa che evidentemente non riesce a tutti. Il tabù è, per definizione, una cosa della quale non si deve parlare, e non si deve nemmeno pensare. Il solo immaginare di affrontare questa questione mette le ali all’angoscia. E, come si è detto, sono i genitori ad essere i portatori (tutt’altro che sani) del tabù. Non è il bambino a insegnare il tabù ai genitori. Dunque la vera angoscia è tutta loro, almeno fintanto che non la riversano sulla sciagurata prole…

Dunque ora, tanto per cambiare, espliciteremo il tabù, dicendo l’indicibile. Il genitore turbato dal pensiero edipico teme (o forse desidera…) che il figlio o la figlia lo possano indurre, forse costringere, ad un rapporto sessuale incestuoso. Non che non sia mai avvenuto nella storia (con esito davvero quasi sempre tragico), ma il punto è che questo esito NON E’ obbligatorio. QUESTO esito risiede molto più nella fantasia dell’adulto che in quella del bambino, il quale, come si è detto, raramente ha le idee chiare a proposito della meccanica dell’accoppiamento e pensa piuttosto ad una sessione sfrenata di coccole, o alla realizzazione del desiderio di dormire con. Una cosa certa è che nel genitore agisce un doppio tabù: quello dell’incesto (cioè dell’accoppiamento con uno stretto consanguineo) ma anche quello della pedofilia. Ciò è più di quel che serve per suscitare nell’adulto una reazione di panico anche alle richieste meno “scandalosamente erotiche” del bambino, il quale, per certo, non è turbato dai propri desideri, ma dalle reazioni che questi suscitano nell’adulto.

Torniamo dunque alla domanda a proposito di ciò che accadrebbe se non si opponesse alla richiesta del bambino la risposta imbarazzata e castrante del diniego totale, con il corredo della nefanda Teoria del Peccato. Per provare a dare una risposta a questa questione potremmo citare alcuni “casi non-clinici” che potrebbero rivelarsi illuminanti, o quantomeno indicativi di una possibilità. Attenzione però: qui non stiamo cercando di dimostrare che tutti i cigni sono neri attribuendo valore probante al fatto che qualche cigno nero è stato effettivamente avvistato. La norma continua ad essere l’edipo, ma se si desse anche solo una manciata di casi nei quali la tagliola edipica non è scattata, potremmo almeno concluderne che “esistono delle alternative”, e dunque, in risposta ad una delle domande iniziali, che l’edipo non è ineluttabile. E non solo nel senso che non è ineluttabile soccombergli (già sappiamo che il buon Sigmund è pronto ad aiutarci…), ma anche e soprattutto nel senso che è immaginabile poter evitare di caderci dentro (magari!). Prevenire è meglio che curare – un concetto molto contemporaneo che però a Freud non sarebbe spiaciuto.

Fra tutti i casi non-clinici (non molti, è vero) dei quali siamo a conoscenza, vorremmo menzionare quello di Alessandro C. Alessandro è il figlio di 5 anni di una coppia sposata; lei, che da qui in poi chiameremo “la mamma”, ha 43 anni, mentre lui, che chiameremo “il papà”, ne ha 54. La coppia ha altri due figli, di 14 e 11 anni, rispettivamente un maschio e una femmina.

Alessandro è un bambino sereno e socievole, molto “candido” e benfidente nei suoi rapporti con le persone che lo circondano. Dice quello che pensa con schiettezza e senza aggressività, e si percepisce che tra sé e sé riflette molto sulle cose, anche se le sue uscite sono spesso piuttosto ingenue. E’ palesemente un bimbo che non ha ricevuto grandi frustrazioni, ma mostra molto rispetto per gli altri e non è mai capriccioso o prepotente. Ci sarebbe difficile dire se sia per indole “naturale” o a causa dell’educazione ricevuta, ma Alessandro è quello che definiremmo un bambino “pacioso”. I genitori, che sicuramente gli vogliono molto bene, lo trattano con quello che a noi sembra un mix singolarmente equilibrato di affetto e di dolce fermezza. Sicuramente non lo vessano con inutili e gravose richieste, ma non potremmo nemmeno dire che “lo viziano”. Il loro rapporto con Alessandro è molto giocoso e molto corporeo. Il bambino è spesso in compagnia di una baby-sitter, ma socializza anche con i parenti e con gli amici dei genitori. Non sembra intimorito dalle differenze d’età. Non è esuberante ma nemmeno timido, e avvia la conversazione senza timore anche con gli estranei.


7. LO ZEN DEL NON-SI’ NON-NO

Dunque Alessandro ama sua madre, cosa che apparentemente non gli impedisce di amare anche altre persone, con le quali come si è detto stabilisce rapporti con facilità. Il papà e la mamma di Alessandro non sono allarmati dalla sua tendenza ad estendere i suoi orizzonti affettivi, e oltre a non contrastarlo lo aiutano in questo, organizzando per lui una vita sociale molto ricca (anche al di là della scuola) e facendolo partecipare alle proprie frequentazioni adulte. La mamma, che è in ogni caso la figura di accudimento principale, accoglie le profferte amorose di Alessandro senza turbamenti e senza imporgli i capestri del “pensiero unico” (“devi amare solo me”) né quelli previsti dalla Teoria del Peccato.

Alessandro si esprime dunque liberamente nei suoi impulsi affettivi ed erotici. Gli piace molto passare il suo tempo sdraiato sul letto sopra la sua mamma, con la quale chiacchiera, scherza e scambia baci e carezze. Ogni tanto la abbraccia forte all’altezza delle ginocchia (non è molto alto per la sua età) e le dice con grande passione “voglio TE”. Dormire con la mamma è ovviamente una cosa che Alessandro gradisce molto, ma siccome non è una cosa vietata, e la può fare tutte le volte che vuole, di fatto non accade tanto spesso quanto si potrebbe pensare. (Normalmente Alessandro dorme in un letto singolo di dimensioni normali in una camera che condivide con la sorella più grande.) E questo ci porta ad uno dei nuclei del nostro tentativo di risposta alla domanda del “cosa accadrebbe se…”

Saremmo forse sorpresi se la risposta fosse: “Niente”, nel senso di “niente di strano, niente di male, niente che non sia ciò che è e che deve essere”? Lasciare l’iniziativa al bambino, lasciare che sia partner attivo e vivace, non si rivela praticamente mai una scelta sbagliata, in grado di generare tutti quei mostri che noi adulti temiamo. Quelli sono i NOSTRI mostri, che il bambino non si immagina nemmeno fino a che non siamo noi ad insegnargli le nostre mostruosità. Il bambino ama, e gradisce molto essere riamato. Accogliere il suo amore, così come accogliamo il suo bisogno di essere ospitato in una casa, protetto, vestito… senza imporre alcuna teoria presupposta dell’amore né esigere pedaggi in termini di imposizioni castranti, è quello che io chiamo lo zen del non-sì, non-no. Lasciare che le cose prendano il loro corso senza irrigidirsi e senza esercitare violenza è il modo migliore – forse l’unico modo – per creare le condizioni di una futura autonomia emotiva.

Le pere, una volta mature, si staccano dall’albero in modo naturale, cioè secondo natura. E’ il loro destino. Nessuna pera desidera rimanere a marcire sul ramo. Il bambino non respinto, non mortificato nei propri slanci amorosi, si guarderà presto in giro, affascinato dalle mille opportunità che gli si fanno incontro, e non avrà nessuna esitazione, e nessuna ansia, nello spingere sempre più in là i propri orizzonti affettivi. La mamma resterà alle sue spalle come una presenza sicura, come una memoria calda e pulsante, ancora ben viva nel pensiero e sulla pelle, ma non sarà un rimpianto, e meno che mai una minaccia. La mamma che non dice “o ami me o ami lei (oppure lui)” pone il bambino di fronte ad una scelta che è poco definire angosciosa. La mamma che invece non ha angosce abbandoniche e quindi non le riversa sui propri figli insegnerà loro, senza nemmeno parlare, che ogni fine è un inizio, e che tutte le volte che abbiamo il coraggio, la voglia e il piacere di iniziare una nuova impresa, è là che dimostriamo a noi stessi e al mondo che siamo vivi e interi.

pubblicato il 10 Febbraio 2013