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OSTACOLI ALL'ANALISI

di Lorenzo Carrara

Questo articolo è stato creato e pubblicato dall'Associazione Italiana per lo Studio della Psicoanalisi nell'ambito delle proprie attività di divulgazione della conoscenza della Psicoanalisi. In considerazione degli intenti divulgativi dell'articolo si è scelto di utilizzare un linguaggio quanto più possibile vicino al linguaggio corrente, allo scopo di renderlo più facilmente comprensibile ad un pubblico di lettori non specialisti. Tutti i diritti sono riservati. © Associazione Italiana per lo Studio della Psicoanalisi – Luglio 2014.

Come sappiamo, la richiesta di chi intende iniziare un'analisi ha solitamente due varianti apparentemente ben distinte. Nel caso più frequente, la persona in questione desidera “stare meglio” con se stessa e/o con gli altri e ci chiede un aiuto in questa direzione, mentre in altri casi – meno consueti ma numericamente non irrilevanti – il desiderio sembra essere quello di “conoscere meglio se stessi”. In questa sede non approfondiremo i motivi per i quali, in buona misura, anche questo secondo approccio all'analisi equivale sostanzialmente al primo. La differenza, al di là della diversa formulazione, consiste più che altro nel grado di consapevolezza delle proprie motivazioni reali, che sono praticamente le stesse ma nel secondo caso restano inconsce e si esprimono attraverso il filtro difensivo di una razionalizzazione. Vorremmo invece parlare di uno dei momenti più critici che si possono presentare nell'analisi, generalmente non troppo tempo dopo il suo inizio; la sua importanza è fondamentale perché ad esso è collegato il rischio dell'interruzione dell'analisi e quindi della vanificazione del lavoro fino a quel punto sviluppato.

Molte persone sono convinte che l'analisi corra un rischio di interruzione quando la persona in analisi “si trova male” con l'analista. Chi ritiene di avere una dimestichezza un poco maggiore con la psicoanalisi potrebbe esprimersi in modo apparentemente più sofisticato, dicendo forse che in quei casi “si è instaurato un transfert negativo” con l'analista. La convinzione che sta dietro a queste rappresentazioni della situazione sembrerebbe essere quella secondo la quale il compito dell'analista consisterebbe nel consolare, confortare, consigliare, esortare, incoraggiare la persona in analisi. Naturalmente noi sappiamo che le cose stanno ben diversamente: un transfert “negativo” è semplicemente IL transfert. Lo spostamento sull'analista dei sentimenti negativi e delle tensioni emotive che scaturiscono dalle relazionalità primarie non elaborate è esattamente ciò che noi ci aspettiamo di vedere accadere, ed è in particolare ciò che ci serve per poter procedere nelle fasi successive del lavoro, che consisteranno – giustappunto – nell'analisi del transfert così evocato (e del relativo controtransfert).

Da quello che si è appena detto dovrebbe risultare evidente che l'instaurarsi di un transfert “turbolento” non è per noi un motivo di inquietudine. Molti analisti, di fronte al suo presentarsi, direbbero anzi a se stessi “Benissimo! E' venuto finalmente il momento di rimboccarsi le maniche e di dare inizio alla parte più importante del lavoro”. Ben più problematica è la situazione che si presenta quando il transfert sembra invece latitare. Noi vediamo la persona in analisi da diverso tempo – settimane o forse anche mesi – e seduta dopo seduta riscontriamo che continua a rapportarsi a noi in modo apparentemente improntato a una calma olimpica e a un pacato ma attivo atteggiamento di collaborazione. Come un bravo bambino che riconosce il ruolo e il lavoro della sua maestra, ci presenta i suoi compiti che sembra svolgere in modo diligente e sollecito, arriva puntuale alle sedute, rispetta sempre i patti e cerca insomma di “fare bella figura”. Ma per l'analista che a questo punto si ritenga gratificato e soddisfatto di se stesso e del suo interlocutore (“Tutto procede a gonfie vele!”) si sta quasi sempre preparando una amara sorpresa. Un bel giorno – si fa per dire – la persona in analisi non si presenta più. In molti casi evita attivamente il ristabilirsi del contatto, non rispondendo alle telefonate o ai messaggi email eventualmente ricevuti dall'analista. Senza avere elaborato congiuntamente i motivi dell'interruzione, si sottrae al confronto riversando sull'analista una forma di aggressività passiva. Chi opera da tempo come psicoanalista avrà assistito più volte a questo svolgersi delle cose, e riconoscerà, con tutte le microvarianti del caso, un copione già visto in diverse occasioni.

Quello che ci interessa, a questo punto, è una comprensione adeguata delle dinamiche sottostanti a questo tipo di agiti. Cercheremo ora di approfondire alcune delle motivazioni più comuni di questi episodi, sottolineandone la natura difensiva e comunicativa (pur nella apparente interruzione della comunicazione), provando a capire anche in quale modo si possano essere verificati eventuali “passi falsi” da parte dell'analista. In generale, le motivazioni che possono dar luogo a questo tipo di interruzioni rientrano in due categorie principali: si tratta infatti o di un modo della persona in analisi per segnalare la percezione (o il timore) di un atteggiamento dell'analista non sufficientemente empatico, distratto, superficiale, improntato allo sfoggio narcisistico di erudizione o “saggezza”, oppure – al contrario – di una reazione ad un ascolto offerto dall'analista nel quale la componente empatica è stata percepita come eccessiva, invasiva, sopra le righe.

Cosa dunque ha determinato l'allontanamento della persona in analisi? Molti analisti liquiderebbero in modo spicciativo la questione con una affermazione recisa e semplicistica: “E' colpa delle resistenze”. In questa affermazione potrebbero annidarsi in modo più o meno inconscio sfumature fatalistiche o moralistiche che vale la pena di prendere in considerazione, specialmente se vengono a significare un implicito giudizio di valore nei confronti della persona in analisi. Solo una attenta valutazione del controtransfert – che potrebbe rivelare una angoscia abbandonica dell'analista, o un suo timore di un giudizio di disvalore da parte della persona in analisi, e quindi una ferita narcisistica – può evitarci di commettere grossolani errori di comprensione e di gestione della situazione.

Nel primo dei due casi (un ascolto non sufficientemente empatico, distratto, superficiale, improntato allo sfoggio narcisistico di erudizione o “saggezza”) starà all'analista, considerando con attenzione gli elementi della propria modalità di intervento e del proprio controtransfert, valutare il significato della comunicazione transferale costituita dall'abbandono dell'analisi. Una disamina a posteriori di quello che è intercorso con la persona in analisi potrà abbastanza facilmente fornire dei lumi sul significato da dare all'agito. E' chiaro che non ci si può aspettare tanto spesso di poter intervistare in proposito la persona che ha abbandonato l'analisi: prima di tutto perché sarà assente, e in secondo luogo perché se ha fatto ricorso all'agito dell'interruzione unilaterale potremo aspettarci che non sia in grado di fornire verbalmente le spiegazioni che ci servirebbe avere (o non sia disposta a farlo).

Nel secondo caso le cose sono potenzialmente più complesse, ma anche più interessanti e meno scontate. Se infatti l'analista è stato capace di empatia, se ha accolto le esternazioni della persona in analisi con attenzione e sensibilità, perché mai l'esito dovrebbe essere quello di una interruzione del rapporto analitico? Se la richiesta di chi inizia un'analisi corrisponde al desiderio di essere ascoltato e compreso per potersi poi conoscere e capire meglio (risolvendo o attenuando così eventuali stati di sofferenza emotiva), perché mai una risposta apparentemente adeguata da parte dell'analista a questa richiesta può sfociare in un allontanamento?

Tanto per cominciare, facciamo a titolo di esempio il caso di una persona che abbia subìto nella propria infanzia una serie di frustrazioni narcisistiche sufficientemente profonde e brucianti, dovute alla mancanza di rispecchiamento empatico da parte delle figure di accudimento primario. Questa persona sarà probabilmente sfiduciata e con tendenze alla depressione; gli altri le appariranno incapaci o non interessati ad ascoltare le sue emozioni, i suoi sentimenti, i suoi turbamenti. Anche escludendo una gravità tale da esprimersi in una deriva di tipo paranoide, il dolore causato dalle esperienze vissute potrà rendere a questa persona molto difficile riuscire a fidarsi di tutti i propri interlocutori e dunque anche del proprio analista. La cognizione razionale della sua (dell'analista) competenza professionale non aiuterà la persona in analisi più di tanto: il piano della razionalità e quello dell'emotività ferita sono per il momento troppo distanti fra loro. La razionalità tenderà a spingere verso una collaboratività “intellettuale” che si presenterà ai nostri occhi come un atteggiamento di diligenza e apparente ragionevolezza, ma una disamina del transfert ci confermerà che i flussi emotivi sono tuttora bloccati, tenuti sotto scacco. La componente razionale del sé, magari provvisoriamente sorretta da alcuni tratti dell'Ideale dell'Io, porterà avanti questo gioco mettendo in campo una versione sostanzialmente inautentica della partecipazione attiva. Cercherà di mostrarsi sollecita nel cogliere gli stimoli e nell'utilizzarli, mostrando all'analista un aspetto di “falso sé” (come avrebbe detto Winnicott) volto ad affermare: “Io ce la sto mettendo tutta. Se la cosa non funzionerà, non sarà colpa mia”. In realtà, nello stesso momento una dimensione più autentica del sentire profondo (quello che Winnicott avrebbe chiamato “vero sé”) starà lavorando in modo sotterraneo (cioè inconsciamente) per preparare il sabotaggio dell'analisi.

Ma perché? Perché mai il vero sé, bisognoso di risposte empatiche, ferito e dolorante, dovrebbe sabotare l'analisi, cioè ciò che potrebbe portargli sia un certo grado di sollievo emotivo immediato che una possibilità di ristrutturazione interiore a lungo termine in grado di condurlo al di là del deserto arido e pieno di rovi della nevrosi? Naturalmente, la motivazione sottesa a questo agito non è razionale. La razionalità della persona in analisi non può che assistere impotente, oppure fornire spiegazioni solo apparentemente ragionevoli per giustificare questo sviluppo autodistruttivo. Ciò che spinge le parti inconsce dell'Io ad una scelta apparentemente autolesionista – il boicottaggio dell'analisi e/o la sua interruzione – è la paura di una soddisfazione dei propri bisogni o desideri che viene vissuta come colpevole.

Ricapitoliamo: un desiderio proveniente dalle profondità inconsce dell'Es ha trovato la strada sbarrata dai divieti e dai tabù imposti dal Super-Io, con o senza una dose di rinforzo da parte dell'Io del divieto. Questo conflitto - tra i bisogni e i desideri dell'Es e la funzione di controllo e censura rappresentata dal Super-Io – è ciò che chiamiamo “psiconevrosi”, o più semplicemente “nevrosi”. La nevrosi è una situazione conflittuale di stallo doloroso, di mancata risoluzione di un conflitto interno, è un conto non saldato tra due parti di sé (“istanze psichiche”) che non si mettono d'accordo su un compromesso accettabile, è un tiro alla fune in cui nessuna delle due parti in gioco riesce a prevalere sull'altra, ma che ha un costo molto alto in termini di dispendio di energie (psichiche). La natura stessa del conflitto impone a chi lo vive un prezzo che va al di là di quello costituito dal grande spreco di energie: la condanna all'inazione, e quindi alla mancata soddisfazione del desiderio bloccato, ma anche la riprovazione morale per avere anche solo desiderato la cosa in questione. Il tentativo di sottrarsi a queste condanne – cioè il tentativo di uscire dallo stallo nevrotico – accende e rinfocola intensi e spiacevolissimi sentimenti di colpa. Per evitare i sentimenti di colpa non c'è cosa più efficace che il boicottaggio del tentativo di mandare a buon fine l'analisi, e il migliore boicottaggio consiste nella sua interruzione, possibilmente associata a un insieme di pseudo-spiegazioni dei motivi che l'hanno causata.

Fin qui la teoria freudiana classica, semplificata quanto basta per non appesantire eccessivamente il discorso. La teoria freudiana classica dà per scontata l'esistenza di una strutturazione psichica adulta (Es, Io, Super-Io). Ma che accade quando le esperienze infantili hanno determinato un blocco evolutivo, quando cioè l'Io o il Super-Io non hanno avuto modo di strutturarsi e di consolidarsi adeguatamente? In questo caso assisteremo al presentarsi di conflitti che dovremo chiamare “pre-strutturali”. Per poter proseguire nella nostra disamina dovremo introdurre gli ampliamenti dell'approccio classico che ci vengono offerti dalla Psicologia del Sé e da altri sviluppi più recenti della Psicoanalisi.

Nel caso che abbiamo prospettato, cioè quello di una persona che abbia subìto nella propria infanzia una serie di frustrazioni narcisistiche profonde e brucianti, dovute alla mancanza di rispecchiamento empatico da parte delle figure di accudimento primario, sarà sicuramente attivo – oltre al desiderio di ricevere ciò che non si è avuto nel passato – anche un profondo terrore di vedere riaccadere ciò che si è già vissuto, vale a dire la mortificazione dei propri bisogni di rispecchiamento empatico. Lasciarsi andare alla fiducia nell'analisi e nell'analista è praticamente impossibile per chi ha il terrore di un ulteriore tradimento. Anche in questo caso, la razionalità cercherà di sorreggere l'impegno analitico, ma l'emotività profonda cercherà di mettere in atto al più presto una fuga. “Meglio restare nella palude della nostra sofferenza, già nota e per la quale abbiamo già sviluppato un certo numero di meccanismi compensatori (per quanto inefficaci ai fini della possibilità di sentirci sereni e realizzati) che rischiare un'ultima, definitiva catastrofe fidandoci di qualcuno che potrebbe nuovamente tradirci o abbandonarci da un momento all'altro”. E un analista che si rapporti con un atteggiamento particolarmente empatico rischia paradossalmente di acuire questo terrore: “Se mi lascio convincere a fidarmi dai modi di fare apparentemente aperti, disponibili ed amichevoli di questa persona, quando mi arriverà la coltellata nella schiena – perché io so già che prima o poi mi arriverà... - io soffrirò molto di più di quanto abbia mai sofferto. Dunque l'unico modo per mettermi al sicuro è la fuga”.

Ma c'è un altro motivo, ancora più profondo e per così dire più “centrato sul sé” - cioè meno “relazionale” - che può spingere in modo apparentemente improvviso e precipitoso verso l'abbandono dell'analisi, ed è un motivo che può riguardare persone che non sono affatto diffidenti o terrorizzate dall'idea del tradimento e dell'abbandono. Chi avverte dentro di sé la presenza di un Io debole, fragile, poco capace di contenere le spinte pulsionali, potrà avere il terrore che le pulsioni possano per così dire “dilagare”. Il desiderio di vederle soddisfatte è forte, ma ancora più forte è la paura che questo desiderio possa prenderci la mano, ci possa portare al largo come una forte corrente marina che ci separa dalla terraferma e ci fa rischiare l'annegamento. Qualcuno ha parlato di “paura di essere liberi”, cioè paura di poter liberamente desiderare ciò che vorremmo fare, o vorremmo essere. Naturalmente, tra il desiderio e la sua realizzazione potrebbe esserci in pratica una notevole distanza, ma un Io fragile non percepisce questa distanza, e teme di essere travolto da un'onda di pulsionalità come da uno tsunami che tutto distrugge. E più forti sono i desideri repressi, più forte sarà l'angoscia che vedremo attivarsi dentro di noi. Un Io fragile – cioè non sufficientemente solido e strutturato – percepisce le richieste dell'Es come minacciose, destabilizzanti, smodate, invasive. Se a questo si aggiunge un Super-Io eccessivamente rigido e dittatoriale, che si oppone alle richieste dell'Es condannandole a priori, magari sulla base sia di norme negative (“questo non te lo puoi assolutamente concedere”...) che positive (“devi invece fare questo”...), l'Io si trova nella spiacevolissima situazione di essere schiacciato tra un Es che reclama la sua dose di gratificazione e un Super-Io che oppone un rifiuto totale ed emette una condanna senza appello.

Il risultato soggettivo è l'esplodere dell'angoscia, che può manifestarsi in modo evidente, come ansia acuta, o anche venire respinta dalla consapevolezza, scivolando nel buio dell'inconscio. Se l'angoscia viene riconosciuta ed elaborata (vale a dire compresa nel suo significato) sarà possibile fare un notevole passo avanti nella consapevolezza di sé e dunque nella strutturazione di un Io più ampio e più solido. Se invece l'angoscia - che esprime e incarna il terrore di una punizione per i propri desideri “inaccettabili” - resta inconscia, allora tenderà a manifestarsi sotto forma di fobie, oppure prenderà la direzione di una espressione somatica: aritmie cardiache, attacchi di panico, disturbi digestivi, malattie ginecologiche o della pelle, e così via. La somatizzazione è un tentativo di spostare l'attenzione di se stessi su qualcosa di apparentemente molto lontano dai desideri repressi, dalle pulsioni avvertite come minacciose, e nello stesso tempo costituisce, nella sofferenza causata dai disturbi avvertiti, una efficace forma di autopunizione, con la quale cerchiamo di attenuare i nostri brucianti sentimenti di colpa per i desideri (inconsci) che avvertiamo dentro di noi.

pubblicato il 5 Dicembre 2014